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Olympia (Manet)

Olympia è un dipinto del pittore francese Édouard Manet, realizzato nel 1863 e conservato al Museo d'Orsay di Parigi.

Descrizione La tela raffigura una figura femminile nuda mollemente adagiata su un letto sgualcito. Nulla lascia dubitare che si tratti di una prostituta: innanzitutto il nome, Olympia, assai diffuso tra le prostitute parigine dell'epoca. Inequivocabile è anche la posa (con la mano che si copre il pube, l'oggetto del suo mercato), che ricorda quelle immagini che iniziavano clandestinamente a circolare nei salotti parigini, stante anche l'impetuoso sviluppo conosciuto in quegli anni dall'arte fotografica. Ma i dettagli che rimandano al mondo della prostituzione sono molteplici: basti pensare all'orchidea rosa che le adorna i capelli fulvi, o magari al braccialetto dorato, agli orecchini di perle, alle pantofole da cortigiana e al malizioso nastrino di raso nero che le percorre il collo (lo stesso, tra l'altro, indossato dall'inserviente de Il bar delle Folies-Bergère).

A scatenare il biasimo della critica e lo sdegno fu anche il ricorso al modello classico. Come abbiamo già accennato nel paragrafo Storia, infatti, Olympia è una trasparente derivazione iconografica della Venere di Tiziano, che Manet tuttavia reinterpretò deliberatamente secondo il proprio gusto: era un iter che sarebbe divenuto distintivo di Manet, il quale si rifiutava di riprodurre mimeticamente i grandi modelli classici e li sottoponeva a una destrutturazione per riadattarli alla contemporaneità. Mentre la Venere tizianesca - secolare simbolo della bellezza muliebre - è molto dolce, pudica e antierotica, Olympia ostenta senza problemi la sua cruda nudità e la sottopone spudoratamente alla voracità degli sguardi altrui: non ha problemi nel farlo, perché è ben consapevole della propria sensualità. Il suo incarnato è candido, niveo, e molto conturbante: le sue forme, pur irradiando un'innegabile grazia, sono tuttavia acerbe e spigolose, e non hanno alcunché di divino. Non possiede le dolci sinuosità proprie delle divinità classiche, bensì risponde a un'aderenza al vero che trascura le esigenze del decoro e delle auree proporzioni. Per dirla con le parole di Vittoria Giordano, «sembra dichiarare sfrontatamente che il suo corpo giovane e sodo [...] non solo le appartiene, ma ignora la morale ipocrita di quella piccola e media borghesia che costituiva la maggioranza dei visitatori del Salon». Manet, dunque, non si avvale della Venere per legittimare la propria opera, bensì intende desacralizzare il mito classico, nel segno di una violenta iconoclastia artistica dei miti buoni della società borghese.

A differenza della Venere di Tiziano, o comunque di tutte le eroine storiche e divinità dei dipinti classici, Olympia ha la testa eretta e fissa l'osservatore imperturbabilmente, senza sorridere. Mai nella storia dell'arte si era assistito a un volto così inespressivo: in lei non vi è nessuna traccia di emozione, o pudore, o magari lascivia, o appetito sessuale, né vi si legge quella decadente «arroganza da meretricio» generalmente associata alle prostitute. Ci si aspetterebbe infatti che Olympia cercasse di invogliare lo spettatore con ammiccamenti voluttuosi, o perlomeno che si lasciasse invadere da una dolce e maliziosa voluttà interiore. Il suo sguardo, tuttavia, è glaciale e indifferente, e rivela piuttosto un gelido distacco, come se provocatoriamente stesse lanciando una sfida a coloro che la contemplano. Ciò provoca nell'osservatore una reazione di notevole imbarazzo, molto più sentito di quanto non sarebbe stato se Olympia si fosse offerta alla vista in atteggiamenti maliziosi: la donna «non si nasconde agli sguardi, non arrossisce, ma non chiede nemmeno di sedurre. Esige soltanto di essere pagata» (StileArte).

Dalla sua sinistra sopraggiunge una corpulenta serva di colore (per il quale posò una modella di nome Laure) che, con occhi indagatori e curiosi, porge a Olympia un variopinto mazzo di fiori avvolto nella carta, evidente omaggio di qualche galante habitué in attesa nell'anticamera dietro il tendaggio verde. Dove due ancelle nella Venere tizianesca preparano alla dea il corredo nuziale, insomma, qui viene inserita una donna di colore, il quale tra l'altro era un simbolo molto radicato nell'ambito pittorico relativo alla prostituzione. Per la medesima logica iconografica l'amorevole cane della Venere di Tiziano nell'Olympia viene sostituito da un inquietante gatto nero che, rizzandosi ai piedi della donna, sembra quasi scomparire nell'oscurità dello sfondo. Il felino tradisce un'indole selvatica e imprevedibile, tanto che inarca la schiena, ha la coda tesa e fissa l'osservatore con occhi sbarrati, seguendo l'esempio della padrona. Per di più, mentre il cagnolino addormentato della Venere è un simbolo della fedeltà coniugale, questo gatto esalta l'amore mercenario e allude alla vita licenziosa condotta da Olympia.

Analisi Il chiasso suscitato da questo quadro non ebbe solo origini di ordine morale, ma fu esacerbato anche dall'audace tecnica di realizzazione, la quale contraddiceva tutti i convenzionalismi accademici. Manet, infatti, definisce le forme senza impiegare mezze tinte e senza il tradizionale sfumato costruito dal chiaroscuro. La sintesi plastica dell'Olympia, al contrario, è squisitamente coloristica, ed è affidata nella fattispecie alla giustapposizione senza gerarchia delle varie zone di colore, disposte in modo da esaltarsi vicendevolmente. Manet, ad esempio, gioca molto sul contrasto tra toni caldi e toni freddi: è il caso dell'evidenza luminosa della veste della serva contro i colori scuri dello sfondo, o del lenzuolo azzurrognolo che stacca decisamente con il paravento marrone e con i toni aranciati della coperta ornata di nappe e di fiorellini, la quale è a sua volta a contatto con il corpo nudo e ambrato di Olympia. Speciale menzione merita l'omaggio floreale porto dalla cameriera, realizzato con una spregiudicatezza che già prelude le future soluzioni dell'Impressionismo. Le pennellate che descrivono i vari fiori, infatti, sono date per veloci tocchi di colore giustapposti, i quali a una visione ravvicinata sembrano disporsi in maniera incoerente e disordinata: sarà solo distanziandosi dal dipinto che il mazzo di fiori acquista maggior suggestione e senso di verità.

Così come la stesura pittorica anche la tessitura luministica del dipinto è molto cruda e si sostanzia di una luce che, provenendo «dallo spazio davanti alla tela, cioè là dove noi siamo», inonda la donna con violenza, rendendo l'osservatore complice e responsabile della nudità di Olympia: si tratta di una soluzione ben distante dalla «sorgente luminosa discreta, laterale e dorata che la sorprende quasi suo malgrado» (Michel Foucault) della Venere di Tiziano. Dal punto di vista strutturale, invece, la composizione si articola staticamente su semplici linee verticali e orizzontali: il letto e il corpo di Olympia seguono la direzione dell'asse orizzontale, così da assecondare l'andamento longitudinale della tela, mentre la direttrice verticale è descritta dalla testa della donna e dalla porta sul retro.

1863
Oil on canvas
1300.0 x 1900.0cm
Immagine e testo per gentile concessione di Wikipedia, 2023

Dove si trova

Museo d'Orsay
Museo d'Orsay
Collezione permanente